Unimpresa: servono agevolazioni fiscali per riportare in Italia i marchi storici ceduti all’estero

Pubblicato il 17/06/2025
Ultima modifica il 17/06/2025 alle ore 10:20
Teleborsa
Una legge per incentivare il ritorno e il rimpatrio in mani italiane dei marchi storici ceduti all’estero. È la proposta lanciata da Unimpresa, che richiama l’attenzione del governo su un tema cruciale per l’economia nazionale e per la tutela del patrimonio industriale e identitario del Paese. Nel 2024, il mercato italiano delle fusioni e acquisizioni di brand made in Italy ha raggiunto un valore complessivo di circa 73 miliardi di euro: di questi, circa 49 miliardi sono riconducibili ad affari domestici, mentre circa 24 miliardi sono affari riguardanti marchi tricolore perfezionati oltreconfine.

"Il concetto di made in Italy, e più specificatamente di marchio, ha radici storiche antiche che si intrecciano con l’evoluzione dell’artigianato e dell’industria italiana. Fin dai tempi pre-industriali, la produzione locale era caratterizzata da una maestria artigianale unica: ogni prodotto portava con sé la sapienza e le abilità tramandate di generazione in generazione. È però nel dopoguerra che il Made in Italy assume pienamente il valore di simbolo di qualità, creatività e innovazione, specialmente nei settori della moda, del design e dell’agroalimentare. "In particolare, negli anni ’50 e ’60, durante il boom economico, i marchi italiani hanno iniziato a suscitare un profondo interesse da parte di investitori esteri: un processo lento e costante che ha portato, fino ai giorni nostri, a un vero e proprio "svuotamento" del know how intrinseco nei marchi realizzati in Italia" spiega il consigliere nazionale di Unimpresa, Marco Salustri, secondo cui "non sono state mai elaborate, e soprattutto concretizzate, leggi che agevolassero e incoraggiassero gli imprenditori italiani a fare investimenti per riportare in mani italiane i propri brand venduti. Negli ultimi anni, pur registrandosi alcune iniziative legislative da parte del governo – tra cui la legge 206 del 2023, che introduce misure per la tutela dei marchi registrati da almeno 50 anni o utilizzati continuativamente per lo stesso periodo – le azioni intraprese sono considerate da Unimpresa ancora insufficienti. Per questo, l’associazione propone un intervento più strutturato: una vera e propria norma fiscale per il rimpatrio dei marchi".

La proposta di Unimpresa, stabilisce, in particolare, tre linee d’azione: agevolazioni all’accesso al credito bancario, eventualmente con garanzia dello Stato, per finanziare l’acquisizione o il riacquisto dei marchi; incentivi mirati alla riduzione del cuneo fiscale per l’assunzione, per almeno cinque anni, di personale impegnato nella produzione di beni e servizi legati al marchio; una riduzione della pressione fiscale proporzionata alla percentuale societaria riacquisita. "Una misura di questo tipo genererebbe benefici anche per l’erario: maggiori entrate derivanti dalla distribuzione di utili nel territorio nazionale e un ampliamento delle basi imponibili ai fini delle imposte sui redditi. Ma, soprattutto, restituirebbe al sistema produttivo italiano un pezzo fondamentale della propria identità industriale, culturale ed economica" osserva il consigliere nazionale di Unimpresa.

Secondo il Centro studi di Unimpresa, nel corso degli ultimi anni il fenomeno della cessione dei marchi Made in Italy a investitori esteri ha assunto dimensioni sempre più rilevanti, confermandosi come una tendenza strutturale e non più episodica. Solo nel 2024, il mercato italiano delle fusioni e acquisizioni ha raggiunto un valore complessivo di circa 73 miliardi di euro, con una crescita del 13% nel numero di operazioni rispetto all’anno precedente. Sebbene oltre due terzi di queste transazioni abbiano coinvolto soggetti nazionali, la quota di operazioni cross-border è in aumento, trainata in particolare dai grandi fondi internazionali di private equity. Vale a dire che su 73 miliardi di volumi, circa 49 miliardi sono riconducibili ad affari domestici, mentre circa 24 miliardi sono affari riguardanti il made in Italy perfezionati oltreconfine. Tale dinamica ha determinato il passaggio di numerosi marchi storici sotto controllo straniero, tra cui Bialetti, rilevata da un gruppo lussemburghese legato a capitali cinesi, e La Perla, acquisita dall’ex ceo di Expedia. All’interno di questo quadro complessivo, il settore della moda e del lusso rappresenta l’ambito più esposto, con un valore di mercato che nel 2025 raggiungerà i 21,6 miliardi di dollari, in crescita costante. L’industria dell’abbigliamento e della pelletteria, insieme a quella agroalimentare e del design, costituisce non solo un asset economico fondamentale – circa il 5% del PIL nazionale – ma anche un elemento identitario del tessuto produttivo italiano. L’acquisizione di Versace da parte di Prada, annunciata nell’aprile 2025 per un valore di 1,4 miliardi di dollari, rappresenta un segnale in controtendenza e testimonia la volontà di alcune realtà imprenditoriali italiane di riportare sotto controllo nazionale brand di rilevanza globale.

"Tuttavia, simili operazioni restano isolate e spesso poco sostenute da strumenti fiscali o agevolazioni creditizie adeguate. Il rischio di una dispersione del know how e della filiera produttiva italiana è concreto, soprattutto in assenza di misure sistemiche. L’internazionalizzazione dei capitali è una componente fisiologica del mercato, ma l’assenza di politiche che incentivino il "rimpatrio" dei marchi e la ricostruzione di filiere radicate sul territorio corre il rischio di privare l’Italia di uno dei suoi asset più preziosi, sia in termini economici sia simbolici" aggiunge Salustri.